Omelia XXXII - A, 15 novembre 2020 (Mt 25,14-30)

 
Ave Maria!

 

Avvicinandoci ormai alla conclusione dell’Anno Liturgico con l’itinerario che ci ha proposto, in quest’anno, l’Evangelista Matteo, non si può fare a meno di riflettere profondamente sul fatto che, nelle sue parabole e nei suoi discorsi di questo Evangelo, Gesù non ha mai cessato di riportarci alle sorgenti, più autentiche e stringenti per noi, dell’intera rivelazione biblica. Del Dio del popolo d’Israele che chiama, ma perché sia soprattutto ascoltato in ciò che siamo e nella nostra stessa profondità umana. Non si tratta mai, dunque, in tale ascolto, di ascoltare pie “esortazioni” al bene, e che lasciano il tempo che trovano (in noi che ci crediamo, talvolta, più intelligenti e forse più lungimiranti di Dio!), ma di un ascolto vero e che fa la differenza di una fede realmente accettata e sentita. L’ascolto, infatti, della Parola di Dio e, per conseguenza, del Vangelo non ci offre le risposte che noi vorremmo e intorno alle quali poi noi ricamiamo discorsi più o meno religiosi, ma soltanto domande, interrogativi, come quello che, agli albori della Bibbia, il Signore rivolge ad Adamo: “dove sei?”. Dove sei, in questo momento in cui io, il tuo Dio, ti cerco e ti parlo. Dove sei mentre cerchi questo o quel senso alla tua vita e ti arrabatti con molte strategie per tacitare le tue inquietudini o anche contraddizioni. Se vuoi conoscermi davvero, devi ascoltarmi nella domanda che ti porgo con la mia Parola. E potremmo continuare, ma per dire, tutto sommato, una cosa decisiva: il vero credente, il vero discepolo di Gesù, il vero cercatore del volto di Dio, deve avere la coscienza che noi esseri umani, a cominciare da me, siamo interpellati da Dio prima ancora di poter fare qualsiasi discorso su di Lui. Altrimenti, la Parola di Dio stessa, ci metterà tra i “mentitori” ovvero coloro che usano Dio a fini strettamente egoistici, interessati o di specchio delle “nostre brame”, e quindi anche di mercato religioso.

 

Così, le parabole di Gesù – e anche quella che ascoltiamo in questa domenica – pongono a noi delle domande che leggono”, soprattutto, dentro la nostra anima, il nostro cuore: chi è per noi quel volto di Dio che cerchiamo, - perché, se crediamo davvero, cerchiamo Dio indefessamente, ogni giorno e ogni momento. Siamo tutti cercatori di Dio, dal momento che la tentazione più subdola che insidia la fede è proprio quella che crede di possedere Dio una volta per tutte. Come ben sapevano gli autentici figli del Popolo d’Israele, i nostri padri nella fede.
Diversamente, viviamo in realtà le nostre proiezioni psicologiche, quelle nostre certezze così profonde e chiuse ad ogni ascolto dell’altro. Per cui, a conti fatti, non abbiamo proprio bisogno di alcun Dio vivo, e ancor quando, dichiarandoci “religiosi” e troppo sicuri di noi stessi, ignoriamo la pura verità ossia che proprio da Dio vorremmo nasconderci. Come Adamo ed Eva (Gn 3,2). Se vogliamo, invece, conoscere davvero ciò che il Signore vuole dirci, - chiamandoci all’ascolto della sua Parola, ma meglio sarebbe dire della sua “voce” -, dovremmo fare nostra quella struggente e accorata invocazione del Salmista: “Guidami, Signore, nelle tue vie, /insegnami i tuoi sentieri” (Sal 118). E questa dovrebbe essere l’invocazione sincera del nostro cuore, quando ascoltiamo soprattutto la parola di Gesù, il Verbo di Dio fatto carne per la nostra salvezza, che ci insegna le domande di Dio rivolte al nostro cuore più vero, purché le ascoltiamo e le mettiamo in pratica. Nella vita, non già nel nostro intelletto.

Faccio questo lungo preambolo affinché sia chiaro, a scanso di equivoci, che non è mia intenzione qui esporre un mio commento personale a questa parabola di Gesù che scuote e interpella me per primo! Non sono chiamato, infatti, da Dio per fare una lezione teologica, o peggio, un commento a quella Parola di Gesù che non ha bisogno né di me né di nessuno per farsi ascoltare dalle anime che lo amano e ne cercano la verità. Dico soltanto quanto Egli ha cercato di dire a me, ma poi ognuno deve aggiungere il suo contributo personale, lasciandosi interpellare, a sua volta, dall’unico Maestro delle nostre anime.

Dunque, la parabola dei talenti è non solo una delle parabole più conosciute di Gesù, ma è anche un racconto aperto che si presta a diverse riflessioni. Di fatto, anche in passato, commentatori e predicatori l’hanno commentata, - e anch’io l’ho ascoltata così da taluni di questi predicatori -, in un senso allegorico, semplicemente esortativo e generico, come se Gesù parlasse dei nostri “talenti” personali, delle nostre inclinazioni per l’una o per l’altra cosa, oppure delle nostre preferenze soggettive per un mestiere o per l’altro, e che il Signore ci avrebbe dato, quasi in maniera arbitraria. In questo modo, tutto rimane chiuso in noi stessi, nella nostra soggettività che non ha bisogno di essere confermata da nessuno dal momento che si ritiene già assoluta, completa autosufficiente. In realtà, Gesù, specialmente nelle sue parabole, non mette al centro della sua Parola la soggettività umana ( se non per indurla ad ascoltare Dio), ma Dio, il mistero di Dio, la sua decisiva Presenza o il suo “sussurro”( come nel caso del Profeta Elia), con una fermezza e una certezza che dovrebbe lasciarci attoniti e dunque attenti, profondamente attenti, alla sua esistenza vivissima. Non intellettuale o psicologica. Nessuno di noi possiede, come Gesù, il senso di questa certezza, così consolante e sicura, della Presenza del Padre che ama l’umanità e vorrebbe riversare su di essa tutta la potenza del suo amore e della sua misericordia. Perfino nelle tenebre più nascoste di questa umanità, che sa molto poco di sé stessa e del fatto perché esiste insieme all’universo.

Così, mettendo al centro della nostra vita e dell’universo, il Primato assoluto di Dio, ecco che la Parola di Gesù, si direbbe senza che ce accorgiamo, sposta – ora sì – la nostra attenzione sul terzo servo che occupa davvero la maggior parte della parabola. La sua condotta è stranissima, perché – in apparenza – non ha spiegazioni. Mentre gli altri servi si dedicano a far fruttificare i beni che il loro Signore ha loro affidato, al terzo servo non viene in mente nulla di meglio che “nascondere” sotto terra il talento ricevuto, - si direbbe -, per metterlo al sicuro. E quando il Signore ritorna, lo condanna come servo “malvagio e pigro” o che non ha capito nulla. Come si spiega un comportamento così distruttivoe insensato, soprattutto per sé? Questo servo, in realtà, non si è mai identificato con la personalità viva del suo Signore. Non lo ha mai riconosciuto come Signore della sua vita, quel Signore che gli affida il talento perché vuole valorizzare al massimo la sua vita. E così in nessun momento agisce spinto dall’amore, dalla gratitudine (che è poi l’aspetto segreto del vero amore). Non ama il suo Signore, perché lo subisce passivamente (come tanti cristiani che vivono passivamente il fatto di credere in Dio o in Gesù, senza mia preoccuparsi di voler ascoltare per conoscerlo davvero, il loro Signore), ma in fondo non lo conosce e non è neppure interessato a conoscerlo! Questo servo, tutto sommato, non sa perché vive e per chi vivere. La paura di perdere sé stesso lo trattiene chiuso nel suo egoismo più ferreo e non vuole alcuna responsabilità verso nessuno, e tanto meno verso il suo Signore. Non sa cosa sia una fedeltà attiva e creatrice, e non vuole essere coinvolto in nessun progetto del suo Signore. E’ lui stesso a spiegarlo chiaramente, quando arriva il suo Signore: “ Ecco ciò che è tuo”. Ed è tutto.

Potremmo dire, intanto, che questo terzo servo è di una attualità sconcertante. Rappresenta bene tanti credenti di oggi che sono più preoccupati di “conservare” quella debole fede che hanno dentro sé stessi, mentre non si preoccupano affatto di far fruttificare questa loro fede, impegnandosi per il Signore e cercare con coraggio vie nuove per accogliere, vivere e annunciare il progetto di Gesù del Regno di Dio. Di fatto, anche a noi potrebbe sembrare oggi più sicuro e prudente difendere la fede in una specie di ghetto e sperare nell’arrivo di tempi migliori. Eppure, è più evangelico vivere nella società attuale sforzandoci di costruire un mondo migliore o almeno più umano. L’atteggiamento “conservatore”, come anche quello “progressista”, – gli estremi si toccano! -, è tanto più pericoloso in quanto non si presenta sotto il proprio nome, ma invocando l’ortodossia, il senso della Chiesa o la difesa dei valori cristiani, oppure l’aggiornamento sfrenato e senza discernimento. Ma non è questo un altro modo di congedare Dio dalla nostra vita, metterlo al sicuro e cioè a tacere? Voglio dire che la Chiesa non perde il suo vigore e la sua forza evangelica per gli attacchi che riceve dall’esterno o perché non è al passo con i tempi moderni, oggi certo molto agguerriti, ma perché al suo interno non siamo capaci di confidare radicalmente in Gesù e nel suo Spirito. E di rispondere in modo audace e rischioso alle sfide del nostro tempo con il talento della fede, della nuda fede, che il Signore ci esorta ogni giorno a far fruttificare, non già a tenerla chiusa e sterile.

Forse dovremmo ascoltare sempre di più questa parabola, perché Gesù la sta raccontando a noi, in questo momento. Il primo talento, credo, che sia la vita. Sì, la nostra vita viene da Dio, e Dio vuole che la nostra vita porti molto frutto. Alla vita è legata, poi, la nostra fede, ma anche questa fede deve portare frutto e non congelarsi nella paura o nella pratiche soltanto devote. Perché in profondità la nostra principale debolezza, - forse il nostro più grande peccato, oggi -, è di dubitare dei doni che abbiamo ricevuto senza alcun nostro merito e, per conseguenza, di dubitare del Donatore! E così ci manca anche la capacità di riporre una vera fiducia nell’amore di Colui che ci ha fatto tanti doni. Se dubitiamo a tal punto di noi stessi, - per cui spessissimo invidiamo solo i presunti doni degli altri -, è perché, in fondo, dubitiamo dell’amore di Dio per noi che ci ha dato la vita e ancora di più la fede nella sua Presenza, nella sua Custodia ben oltre questa vita, la sua Attenzione, altrettanto piena d’amore per tutto ciò che siamo e che viviamo. Al centro di tutto questo (la vita, la fede, i fratelli e le sorelle, e quant’altro mai…), credo, che ci sia il dono più grande e impagabile, quel dono che i santi e le sante ci testimoniano perché hanno avuto il coraggio di andare fino in fondo all’amore di Dio e di volerlo conoscere a prezzo, perfino, della loro stessa vita o per meglio dire dei loro interessi più immediati o a portata di mano (dunque, il Primato di Dio nella loro vita): il dono, davvero inestimabile, di sentire Dio, in un certo senso come lo sentiva Gesù – una fermezza e una certezza nella sua Presenza, misericordiosa e attentissima, che niente al mondo poteva scuotere o mettere in crisi per nessuna ragione. Gesù è venuto nel mondo proprio per darci questo dono della indefettibile Presenza di Dio in noi e nell’universo. Non per nulla, Egli, prima di ogni altra cosa, insisteva sulla fede, ma sulla fede che crede soprattutto all’Amore di Dio. E l’amore, anche in cuori piccoli e indifesi come i nostri, non è mai cieco. E’ piuttosto sempre lucidissimo, contrariamente alla supposta saggezza popolare, e che dice il contrario. Anzi è la realtà più lucida e sicura che ci sia. Dall’amore di Dio nasce tutto, mentre il resto viene di conseguenza: “Se avrete fede quanto un granellino di senape e direte alla montagna “spostati”, la montagna si sposterà”. Niente è impossibile all’Amore di Dio! Ed è questa la fede che Gesù semina in noi, giorno dopo giorno, con la dolcezza del suo Spirito, della sua Presenza nella sua Parola e nella divina Eucaristia. Per questa ragione, la Parola e l’Eucaristia fanno la differenza di tutto. Amen.

 


don Carmelo Mezzasalma
San Leolino, 14 novembre 2020

    

 

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